In una recente intervista Donald Trump ha detto che vorrebbe un dollaro debole, che lui “odia” il dollaro forte, e che bisogna fare qualcosa (dando a intendere che se vincerà agirà in questa direzione). Si tratta di una vera e propria “mania di piccolezza” che si coniuga con la retorica di America Great Again in modo davvero sgangherato. O forse rivelante.
Molti si stanno leggendo “Elegia americana” per scoprire il background del suo vice, J.D. Vance, ma anche il libro del suo consigliere economico (e potenzialmente il prossimo segretario al Tesoro, se Trump dovesse vincere) Robert Lighthizer, ovvero “No trade is free” può essere interessante…
L'idea di base è che con un dollaro debole i prodotti americani potranno essere esportati più facilmente, perché più economici per il resto del mondo. E questo farebbe ridurre il deficit commerciale, che Trump vorrebbe far diventare un surplus: secondo la sua visione di “America Great” il ruolo dello “Zio Sam” non deve essere quello di spadroneggiare consumando a piacere le produzioni degli altri paesi, ma di spaccarsi la schiena a produrre per i consumi altrui. L’etichetta di “weird” (strambo) assegnatagli da Tim Walz sembra molto azzecata…
Nell’ipotesi di una seconda amministrazione Trump, quale potrebbe effettivamente essere la modalità per realizzare l'indebolimento del $? Le opzioni sul tavolo sono essenzialmente quattro.
Intervenire sul mercato valutario internazionale
Coordinarsi con gli altri Paesi per (o costringerli a) indebolire il $.
Spaventare il mercato e sperare che non si scopra il bluff.
Imporre una tassa sugli stranieri che detengono $ o asset USA.
Intervento sul mercato
Gli Stati Uniti dispongono di un Fondo di stabilizzazione dei cambi, che è sotto il controllo del Segretario del Tesoro, e che dispone di una certa quantità di denaro da utilizzare per intervenire sul mercato e inondarlo di dollari, indebolendone così il valore. Queste risorse attualmente sono sotto forma di titoli di Stato statunitensi che possono essere utilizzati per intervenire sul mercato.
È la stessa cosa (anche se al rovescio) che il Giappone ha fatto per intervenire sul valore dello yen allo scopo di rafforzarlo, tentativi durati il tempo di un respiro finché i fondamentali dei tassi d'interesse hanno reso molto più conveniente prendere a prestito lo yen, ogni volta che la BoJ è intervenuta sul mercato ha solo ottenuto brevi pause nel trend. E’ servito un cambio di politica monetaria (tassi di interesse in ascesa in Giappone e in proiezione discendente negli USA) per vedere lo yen rimbalzare.
C’è anche un tema di dimensione, il Fondo di stabilizzazione dei cambi potrebbe non essere abbastanza grande per fare interventi efficaci: in Giappone ogni volta che il Ministero delle Finanze è intervenuto (tre volte nell'ultimo anno), ha usato in media circa 69 miliardi $. L'economia statunitense è quasi cinque volte più grande di quella giapponese e il Fondo di stabilizzazione dei cambi è di soli 200 miliardi di dollari.
Quindi si ‘gettano’ 200 miliardi $ nel mercato (il più liquido e partecipato del mondo) e il mercato fa… un ruttino, dopodiché continua esattamente come prima.
Costringere altri paesi
Trump non ha parlato di intervenire sulla valuta, ma di costringere gli altri Paesi a rafforzare la loro moneta. Poi ha parlato di minacciare dazi se non avessero lasciato che le loro valute si rafforzassero.
Questo ci porta all'opzione due, che consiste nel fare qualcosa di coordinato. In sostanza, se ci si limita a un intervento unilaterale, se i fondamentali economici non cambiano, si bruciano i dollari sul mercato perché l’intervento unilaterale è un episodio e le forze sottostanti al trend resterebbero immutate. Ed è il mercato a formare i prezzi.
Ronald Reagan, negli anni '80, governava in un mondo molto preoccupato per il dominio del Giappone come produttore. Con gli Accordi di Plaza convinse il mondo a lasciar svalutare il $ per bilanciarlo rispetto al Giappone e ad altre valute più deboli. È stato necessario un accordo perché mancavano i fondamentali economici: i tassi di interesse erano molto alti negli Stati Uniti, ma non altrettanto altrove, per forza questo generava forza sul dollaro. Ed è più o meno quello che stiamo vedendo ora.
Sembra quindi che ci sia una certa analogia tra quell'epoca e questa, solo che al posto del Giappone c'è la Cina, che sta spaventando il mondo intero con la sua capacità manifatturiera. È già stata anche etichettata come manipolatrice di valuta. Ma resta una differenza sostanziale: gli accordi del Plaza videro coinvolto anche il Giappone. La Cina non è disposta né interessata a fare nulla del genere. E i rapporti tra USA e Cina non lasciano molto spazio a questo tipo di dialogo. E le affermazioni di Trump di ormai 5 anni fa sul fatto che la Cina fosse un manipolatore di valuta, non hanno ottenuto grandi risultati.
Ma se una svalutazione coordinata non si può fare, Trump potrebbe minacciare dazi e tariffe contro tutti per ottenere la rivalutazione delle monete altrui e di conseguenza il suo obiettivo. Ma gli altri paesi sacrificherebbero la loro competitività globale quando aleggia la minaccia della concorrenza dei prodotti cinesi? Probabilmente preferirebbero accettare i dazi, e pensare a come compensare il danno, piuttosto che manipolare al rialzo le loro valute.
Spaventare il mercato
Trump potrebbe allora scegliere il bluff, arte di cui ritiene di essere un maestro. Potrebbe dire che intende perseguire questa politica per spaventare il mercato, cercando di generare una reazione. Potrebbe anche mettere mano al Fondo di Stabilizzazione dei Cambi, per ottenere un piccolo sell-off e dare forza al suo bluff. Il problema è che il dollaro è anche il classico bene rifugio: quando le cose non vanno bene, la gente torna al dollaro. Quindi, anche spaventare il mercato tende a dare forza al dollaro. Per questo le manie di piccolezza di Trump ha spinto la sua retorica a dire che è venuto il momento di mettere fine all’egemonia del dollaro sui mercati valutari (clamorosamente in scia al desiderio di Russia e Cina di de-dollarizzare l’economia mondiale mettendo fine al “privilegio esorbitante” degli USA)
Tassare gli asset in $
Siamo così giunti all'opzione numero quattro, probabilmente la più potenzialmente efficace, ma anche quella che ha il maggior numero di conseguenze negative per i mercati. Tassare le disponibilità estere in attività espresse in $. In sostanza, si contrastano gli afflussi di capitale che rendono il dollaro più forte di quanto dovrebbe essere.
Oggi tutti nel mondo vogliono il dollaro per un milione di ragioni. È sempre molto liquido. È legato a un'economia enorme. Tutti lo accettano. Puoi accumularlo in molti modi: Treasury, azioni americane, ecc.
Tassano le transazioni in $, si fa in modo che la detenzione di un dollaro abbia un costo tale da indurre la gente a mettere i propri soldi altrove. Si tratta di una proposta che gode di un certo sostegno bipartisan. Non si tratta di una proposta che viene solo dal campo di Trump. I senatori Josh Hawley e Tammy Baldwin, un repubblicano e una democratica, hanno proposto di portare avanti questa iniziativa.
Poiché il dollaro vale più di quanto dovrebbe, gli americani possono comprare più facilmente all'estero, ma per loro è più costoso esportare. La riduzione del deficit commerciale sarebbe l’impatto cercato. Inoltre, genererebbe delle entrate: invece di spendere dollari per intervenire sul mercato, si mette una tassa sugli stranieri. Così non si tassano nemmeno gli americani e si generano entrate per il Tesoro.
Anche i dazi creerebbero entrate, ma chissà come mai la Storia dimostra che l’introduzione di dazi produce un danno economico complessivo e facilita le tensioni diplomatiche. Non dobbiamo ignorare che 16 premi Nobel hanno scritto una lettera in cui affermano che le politiche proposte, che si tratti di dazi o di svalutazione del dollaro, sarebbero inflazionistiche. Lo stesso vale per la “mass deportation” di immigrati: l’impatto sul mercato del lavoro sarebbe quello di un forte aumento dei salari (come conseguenza della minore disponibilità di lavoratori), altro elemento inflazionistico.
Al dollaro debole corrisponde inflazione in crescita. E i cittadini americani hanno re-imparato ad odiare l’inflazione. E a dirla tutta gli americani non amano l'idea che i loro dollari valgano meno, sanno ancora apprezzare i vantaggi di avere una moneta forte. Tutto in America è forte. Ed è bello girare il mondo e potersi permettere di tutto.
Dazi, tassazione delle partecipazioni estere e/o svalutazione del dollaro provocherebbero un nuovo “tunnel” tra l'approvvigionamento dei beni e la creazione di capacità produttive negli Stati Uniti per soddisfare le esigenze, cosa che produrrebbe un nuovo shock inflazionistico.
La tassazione delle partecipazioni estere ha un altro risultato: le azioni americane sono molto più costose (nel senso che vengono scambiate a multipli più alti rispetto agli utili) di quelle europee, giapponesi o cinesi.
Indurre il mercato a un forte repricing non sembra la migliore delle idee. Nell’ecosistema finanziario si diffonderà il bisogno di un adattamento a un mondo in cui i capitali di tutti i Paesi non faranno più la fila per entrare nell'S&P 500. Una vera rivoluzione, con l’usuale conteggio di enormi danni collaterali.
Tutto per le manie di piccolezza di un uomo noto per le sue “tiny hands”?